VITTORIO MATINO - UN’INDICIBILE CONOSCENZA
di Domenico D'Oora
Il panorama artistico contemporaneo è dominato in modo schiacciante da manifestazioni veicolate secondo le più potenti e clamorose modalità comunicative e che si autodefiniscono artistiche; si attribuiscono un’aura engagé, proponendosi come avanguardie contrarie ad espressioni conservatrici. All’inverso d’ogni iniziale attività del pensiero realmente creativo, esse si diffondono dalle più autorevoli sedi istituzionali, musei, biennali ecc, si dipartono proprio dai luoghi a cui invece usualmente, un tempo, l’arte approdava; capovolgendo, in questo modo, la prospettiva e la logica di un’affermazione e di una divulgazione. Simile pratica, che vede a livello planetario, tutti i musei ingombrati, ovunque e sempre, dalla medesima mediocre mercanzia, non può rovesciare la realtà: nonostante la messinscena, è chiaramente quella l’accademia da propagare, la vulgata artistica da imitare.
Il pensiero, la riflessione, l’indagine, la poesia, la gioia che nuove acquisizioni conoscitive ed emotive possono donare; l’arte, ciò nondimeno risiede altrove.
L’opera pittorica di Vittorio Matino si dipana – da quello studio in ….aggiungere via …a Parigi nel 1970 - sempre con la medesima, persistente determinazione, con la stessa volontà chiara e salda, aperta ad ogni possibile approfondimento e verifica, sottintendendo ininterrottamente la ricerca di una conferma del dato che unicamente nella manifestazione visiva del pensiero, si può esprimere ciò che le parole non potranno in nessun caso dire, che nella pittura, più d’ogni altra cosa, si può suggerire, adombrare, illuminare, ciò che all’ingegno non si è specificato. Intendimento del tutto contrario a tanta ”arte contemporanea” che origina da banalità, pseudo provocazioni, da gags - ambientali, visive, comportamentali è indifferente - scelte ed attuate proprio perché il loro effetto scioccante sarà scontato, concedendo alla platea il brivido di “spiegare” ciò che fin da prima era ben noto.
Solo la pittura, parla, sfida quei confini ove il sapere ancora non è consolidato, dove esso è continuamente in formazione; nell’azzardo la possibilità della manifestazione della bellezza, nell’intuizione l’acquisizione di sapere, pittura arte veritiera, che mai potrà mentire, pena il suo stesso fallimento.
Nel tempo l’opera di Matino, secondo sue costanti logiche, ha avuto una continua evoluzione; da un’iniziale ripartizione lineare della superficie pittorica, di cui abbiamo un esempio parallelo in Ryman, ad una fase più calda ove l’artista sembra avvertire la necessità di una sintesi, di un chiarimento storico, tra talune intuizioni relative al trattamento della superficie secondo scansioni e varianze cromatico-luministiche presenti nel futurismo in una felice sintesi con il senso dello spazio e dell’ininterrotto trascorrere del tempo, che possiamo trovare precedentemente nel Dorazio dei reticoli. E’, quindi, quella di Matino, una riflessione di grande respiro che intende calibrare ogni suo mutamento secondo attentissime strategie, nella più ferma volontà di misurarsi con i momenti più alti della pittura del Novecento e, da qui, Matino innova non accettando una semplice pur alta rimeditazione del già dato, bensì avventurandosi risoluto in tutti quei territori della pittura a costruzione lirico-razionale, che permangono inesplorati, e che, nelle sue opere, nella loro virginale appassionata bellezza, ci si presentano come incessante scoperta, rivelazione.
Le opere di Matino muovono da assunti analitici e metodologici sul farsi della pittura, palesando con i lori risultati le sue compiute, autoreferenziali valenze espressive, esse, nella loro presenza,
sono rilevanti in se stesse, non rimandano ad alcunché se non alla propria, strutturale, necessità di relazionare i rapporti che uniscono le varie cromie che si affiancano e che si sovrappongono in austere campiture e complesse velature; tramite il colore esse rinviano all’ineluttabilità della percezione, alla sua intima capacità, di essere pura conoscenza.
E dire che, un tempo, l’arte “strutturata”, alla ricerca delle meccaniche interne della pittura, ne aveva smembrato il corpo in frammenti, riducendolo a sintagmi giustapposti, a Gestalt; ne aveva sterilizzato le capacità comunicative condotte ad essere una sorta di semplice analisi, calcoli, concettualismi, quasi privi di capacità di apportare esperienze sensibili. Per trovare un’espressione simile a quella di Matino, che esplicitamente ci obbliga a percorrere quella via dove il singolo colore non vale per se stesso, ma vive delle relazioni in cui di volta in volta viene a trovarsi, dobbiamo senz’altro risalire a J. Albers, alle sue iterazioni, al suo Tribute to the square, al suo dimostrare che l’entità colore di per sé, isolata, non esiste e si potrebbe risalire anche ad alcuni versanti delle più avanzate sperimentazioni cromatiche dell’Orfismo. Eppure, Matino non è riconducibile e assimilabile ad esperienze storicizzate, anche se i suoi dipinti fortemente s’inseriscono in un contesto di problematiche che sono state per prime affrontate in ambito internazionale. Non si tratta solo di un riferimento che sposta l’opera di Matino fuori da limiti territoriali, bensì che ne assevera la poetica nell’ambito di quelli che sono risultati i concetti che più hanno segnato la riflessione sul significato che può assumere il fare pittura nella seconda metà del secolo appena trascorso: soprattutto l’attualissima riflessione se la pittura in sé, può essere ancora capace di trasmettere realmente messaggi; vale a dire, al punto in cui è giunta, di rivestire, elitaria o meno, una funzione; di essere tuttora vitale, utile alle emozioni e all’intelletto. Ed in questo ambito tematico che il lavoro di Matino è un nuovo, lungamente maturato, impensato, magistrale apporto.
Chi osserva le opere di Matino, non può sottrarsi alla loro effusiva bellezza, all’irradiarsi di una liricità che, pacata ed al contempo decisa, scuote il fruitore turbandone la percezione – quella percezione che, essendone la sua prima esiziale interpretazione, muta il soggetto e con esso il potere di trasformare il mondo. Investiti da sconosciute sensitive informazioni subiamo un diverso orientamento, ci si dischiudono altre, possibili peripezie dello spirito.
Riflettere delle sue opere – vista anche la lucidità teorica con cui l’artista motiva il suo procedere - è più semplice da un punto di vista di prospettiva storica; immediata può essere l’associazione a Rothko, a Ad Reinhardt, a Morris Louis, le cui opere Matino aveva già avuto modo di conoscere nei primi anni ’70 a New York, piuttosto che procedere ad un’analisi visiva che può risultare essere maggiormente difficoltosa, positivamente assai più impervia. Ed è proprio la “difficoltà”, la misteriosa meraviglia delle opere di Matino, il loro porci di fronte a fenomeni inusitati, il proporre trasparenti portenti visuali, non ancora descritti, non ancora concettualizzati, definiti ed ipostatizzati, che fonda la loro differenza, il loro lasciarsi alle spalle ciò che è già conosciuto dall’esperienza, ciò che è già stato nominato, per indirizzarsi decise a definire ed instaurare una splendida sfida visiva ai nostri sensi, alla nostra mente, che coinvolti subiscono uno spostamento, ed in questo moto accedono ad una diversa scala di valori, altre inquietudini, lievi movenze della psiche. E’ la loro indicibilità, la loro luminosa enigmatica attrazione, che le pone nel ristrettissimo novero delle opere che oggi sono realmente arte, che hanno qualcosa da indicare, da enunciare, elevandole così nella grande continuità del moderno, lontano da mercificate banalità che vorrebbero assimilare le nostre esistenze.
Sino ad oggi le opere di Matino si erano divise su scansioni cromatiche geometricamente definite in ragione del formarsi dei vicendevoli rapporti, ed è molto difficile rammentare altri momenti, altri luoghi dove il colore, del tutto autonomamente, abbia assunto valenze comunicative così intense, in nessun momento il colore era stato in grado di avere suggestioni a tal punto risonanti ed evocative: mai aveva cantato in modo così alto.
Sembrava, a tal punto giunti, che non vi potesse essere, che non fosse necessario, un oltre, un altro arricchimento, un ulteriore sviluppo. Invece, Matino, in queste ultime straordinarie tele esposte da Folini Arte Contemporanea di Chiasso, sposta nuovamente il proprio operare, mutando l’angolo espressivo, abbandona la costruzione geometrica, liberando la pittura e con essa, totalmente, il colore. Se la pittura, può essere il tramite per manifestarsi in noi dello stupore, del sentimento del meraviglioso, dell’ansia, dell’inquietudine, dell’idea del continuo mutamento, tutti incredibilmente razionalmente percepiti, qui, nel reverenziale amore per l’atto pittorico, nella sensibilità del sospenderlo prima che divenga chiusa definitiva, nella partecipazione sensuale, nella sommessa monumentalità, distaccata libertà, qui, in queste opere, si è manifestato in modo inusitato, assolutamente inarrivabile.
L’opera di Matino pone delle incognite visive a cui, senza interposizione, fornisce splendenti ipotesi, soluzioni suggerite tramite la poesia del colore, le sue infinite metafore. Questi dipinti però non sono da intendersi come la manifestazione, la traduzione aniconica d’immagini, essi invece - nel loro distinto affiorare alla coscienza - per nominarli, inducono a ricorrere a metonimie, a creare narrazioni, scoprire relazioni, ideare sistemi. E’ questa una delle primarie funzioni che rende necessaria la pittura, l’arte; offrire la motivazione, la facoltà d’indagare, di conoscere intuitivamente ciò che razionalmente e scientificamente non è stato scoperto. In questo l’arte di Matino è diversa e migliore della scienza.
Traspare da queste recenti opere di Vittorio Matino, un fermo antideologismo, una schietta, forte volontà d’intraprendere, senza nessuna retorica, nuovi viaggi, nuove avventure e scoperte, accompagnati dall’inscindibile unione di ragione ed emozione.
In arte tutto accade dentro l’opera, il resto è esterno, successivo, il ferrigno indagare critico, l’altera storia dell’arte, persino l’esistenza, tutto vi è sottomesso, ordinato dal suo riverbero. Tuttavia la pittura non è la realtà, essa è una realtà, non è la vita ma, senza il sapere dell’arte, la vita sarebbe di molto immiserita.
Se la pittura non potrà salvare il mondo almeno ci assista nel comprenderlo e, così, salvi se stessa e con essa chi ancora confida nel senso in tutte le sue possibili manifestazioni.
Domenico D’Oora
Luino, settembre 2004