Paolo Gioli Fotofinish o della crudeltà della visione

All’interno ci sono gli esseri! Oscuri! Ottenebrati! All’interno c’è un’essenza! Quest’essenza è molto reale! All’interno c’è la verità. Lao-Tzu Il Libro della virtù e della via

La fotografia non è arte. Almeno in sé non è arte, come certamente non lo sono pennelli e tela ma, a differenza di questi, l’immagine da essa prodotta, per le sue connaturate virtù mimetiche, per la sua apparenza di leggibilità immediata, fa di chiunque impieghi una fotocamera, anche solo attivandone l’autoscatto, un potenziale criminale, alla stessa stregua di un politico, di un dittatore, pronto a sfruttare le debolezze del suo pubblico trasformandolo in vittima di un’illusione. Un potere enorme è dato a chi ben sa che la realtà è più leggibile, più vera, quando, fissata in un’immagine, si crede di poterla meglio scorgere.

Eppure la fotografia è probabile che non esista più, che tutte le immagini ad essa riferibili non abbiano più a che vedere con il processo di produzione che storicamente si era determinato come fotografia. Ciò che oggi vediamo, e che percorre anche l’arte contemporanea è altra cosa, qualcosa di strabiliante, dalle capacità di manipolazioni tecniche illimitate e a queste, nelle sue aspettative totalmente subordinato. Ciò nonostante da tempo sempre più, l’immagine delle cose, che ci avviluppa, ed a cui si aggrappa la nostra naufraga concezione del mondo, su cui si costruisce il nostro fragile tentativo quotidiano d’essere, è meglio rappresentata, quasi costituita, da quella forma peculiare d’immagine - a cui per difesa dai nostri sempre più incomprensibili, financo fasulli tempi, e mai ci sentiremmo di capitolare ammettendo che tali effettivamente siano, dovremmo essere assolutamente contrari - che è la fotografia. In questa forma, riconoscere o anche proiettare nell’immagine la nostra soggettività, è cosa consueta, divenuta naturale, accadimento dovuto alla riconoscibilità e pseudo oggettività della sua rappresentazione. Fatto ben diverso da quanto attiene all’espressione, nel senso di scoprire, interpretare e riordinare nella visione, un proprio, imprescindibile e inalienabile, unico e intimo universo. Così la rappresentazione fotografica spesso risulta inane, incapace di offendere, di penetrare alcunché, non perché amorfa, anzi essa abbraccia, rilassante avvolge e concede la primigenia necessità di allontanare il dolore, di riconoscere ciò che vorremmo credere sia rassicurante. Il suo suadente risultato è assicurato finché cerchiamo e desideriamo il suo effetto anestetico; perché in effetti sappiamo che la realtà, tutte le realtà che spesso nostro malgrado scopriamo, e che vorremmo dominare, almeno nascondendole a noi stessi, e a cui vorremmo resistere per paura di ciò che potremmo conoscere, è realtà che comprende, comporta dolore, cosicché, anche con compiacimento, soccombiamo.

Di un’intera epoca, sottratta al clamore, alle necessità del momento storico, la gran quantità d’immagini si affloscia, di essa resta solo la smisurata, ridicola vanità. Pochissimi invece sono coloro che hanno saputo trarre dal procedimento fotografico espressione veritiera, opere d’arte duratura e, in questo novero Paolo Gioli si colloca tra i maestri assoluti del dopoguerra. Forme di resistenza alla dittatura della banalità delle immagini sono rarissime, ridotte alla semi clandestinità dal fragore dei quotidiani miliardi di fotografie della comunicazione. Incontrare una di queste forme, essere dinanzi, in fortunata relazione con un’opera di Gioli, è un’esperienza in grado di restituire dignità al lavorio della mente, di rendere ancora utile il battito del cuore. Tutta l’opera di Paolo Gioli ha continuamente, in solitudine ed eroicamente - ma non senza riconoscimenti come attestano le costanti presenze nei più prestigiosi spazi e rassegne internazionali quali il Centre Pompidou o la Biennale di Venezia - fortemente rimarcato la distanza dalla menzognera diplomazia dell’immagine fotografica che, rifiutate le abbaglianti ottusità dei mezzi tecnici, viene sezionata nell’anatomia, scomposta nei suoi momenti procedurali. L’opera di Gioli, nel rendere evidenti le componenti della fotografia, i suoi passaggi salienti, le sue mistificazioni, scompare come immagine descrittiva e mistificatoria per rinascere come nuova possibilità di esperienza etica ed estetica.

L’intervento di Gioli nel processo di formazione dell’immagine è quindi assoluto; esso comporta un tempo della manipolazione - dello strumento ottico, dell’esposizione - e altresì prevede la manipolazione del tempo - la risultanza della successione degli istanti - ed una alterazione dello spazio fisico su cui si formerà l’immagine, più generale metafora dell’arco delle esistenze immaginabili ma non definitivamente realizzabili. E’ così che, la pur esatta programmazione di questi interventi e modificazioni, annuncia risultati completamente aleatori; ossia quanto di più lontano da un meccanico, scientifico, oggettivo metodo di bloccare la realtà. Quella che viene fissata è una realtà possibile, la sola effettivamente conoscibile e che è quella che concerne l’esperienza personale, dell’imprevedibilità, dell’unicità, della definitiva solitudine della percezione dell’essere umano.

La serie Fotofinish di Gioli è stata realizzata in Giappone a Tokio, nel 1996 in uno studio di posa allestito in una camera d’albergo, l’Hotel New Hotani. In una foto d’archivio che riprende la stanza-studio, si scorge il fondale nero provvisoriamente steso su una parete, una lampada ed il suo cono di luce lì puntato, la camera fotofinish, il letto, la poltrona, dove si è seduta la persona ritratta. Della spoglia semplicità dell’allestimento, della sua nudità, si è come smarriti, colpiti dalla percezione di una assenza; come di converso le risultanze, le immagini finali, i Fotofinish, esprimono un disperato desiderio di cogliere ciò che sono i significati della nostra presenza, del nostro passaggio, dell’esistere. Nel Fotofinish il volto umano sussiste senza eccezione nel rapporto con un oggetto; filtrato da una texture, che può avere con esso un rapporto diretto – l’ideogramma della propria firma, i peli del pube, le dita, l’impronta digitale - o meno diretto, ma non privo di relazione, come ninfee, foglie, alberi, lapidi. Nel momento dello scatto, dalla luce che questi inserti intercettano, il soggetto viene risucchiato e moltiplicato, tramato e ribaltato, sformato e sfigurato, proprio come, in ogni istante della vita, l’individuo è sacrificato agli accadimenti, sottomesso a circostanze, agito da eventi di cui non sa dare più spiegazione e di cui, pur consapevole, non può che far altro che attendere il manifestarsi. Nel Fotofinish le immagini dilaniano l’intima percezione degli individui che, come consci d’essere ritmati, nei loro drammi, nelle catastrofi dell’immagine a loro toccate, dal meccanico susseguirsi dei fori di trascinamento della pellicola che sono compresi nella stampa, divengono vittima del trascorrere degli istanti nell’impossibile rapporto con gli oggetti. In questi frammenti di accadimenti, dove il buio pervade, la luce abbaglia e brucia, ed assieme dilatano e polverizzano il tempo, il soggetto, il volto dello sconosciuto ritratto, è direttamente coinvolto in un avvenimento, in una vicenda che non gli si paleserà mai completamente, sussiste e vive come aspettando si compia l’inutile disgregarsi dello spazio, scarificato dalla luce, spogliato e immolato all’imperio del rapporto con un mondo estraneo che attenta al suo essere, che deforma la sua realtà, sfumandola nella consunzione, nel riverbero, nell’ustione dell’attesa. La risultanza dell’esposizione attraverso inserti, ulteriormente assoggettata ad un simultaneo, indotto ma non controllabile trascinamento, non chiarisce il mistero, essa non è dominabile, né è intelligibile, l’identità rimane sospesa, la memoria inespressa; la relazione con le cose, trasformata in rapporto con i segni, diviene ancor più estraniante, rinviando ogni azione ad un vuoto senza tempo, dove le personalità dei soggetti non si manifestano, si delineano solo come apparenze, allontanate ed emarginate, impossibilitate ad esprimere disperazione o residua felicità, vittime allibite in attesa della loro completa dissoluzione.

Paolo Gioli nelle sue opere non ha mai ingannato l’esistenza - né gli uomini né l’arte - le sue opere non imitano la vita né interpretano la verità, esse pericolosamente ne presentano concretamente l’essenza, esclusiva ed ineguagliabile. Con il Fotofinish, Gioli non ha rispetto, non ha sudditanza, non ha timore nei confronti del mezzo – né mai l’ha avuto inventando, sempre, egli stesso il mezzo – né della storia dell’arte, né delle urgenze dell’attualità o della comunicazione di cui a nulla attende: ogni sua singola fotografia, ogni Fotofinish, per realtà comunicativa ed alti esiti formali è opera autentica, capolavoro smisurato, reale come metallo raro e splendente, necessaria come un bicchiere d’acqua. Il Fotofinish di Gioli stabilisce uno dei vertici dell’arte fotografica contemporanea; la storia gliene sta rendendo merito come già a chi lo ama.

Luino, gennaio 2007 Domenico D’Oora