Con il fotofinish, una tecnica che ho iniziato a utilizzare e a reinventare nei primi anni Settanta, avviene una decostruzione e una ricomposizione ed altri fenomeni plastici che ricordano certe elaborazioni grafiche computerizzate. Si tratta essenzialmente della creazione e del compimento di più movimenti in tempo reale della fotocamera (movimento manuale), della pellicola e del soggetto ripreso; movimenti rallentati, accelerati, anche parossistici e improvvisi stop. La figura ripresa entra in combutta con un’immagine fissa posta nella finestrella d’entrata della fotocamera stessa. Si arriva così ad un contatto inesorabile di una figura in movimento che nel contempo e a sua insaputa viene trasformata in un’altra, in mutazione continua della figura (l’altra) bloccata all’interno. Dunque, la linea-fessura tradizionale è sostituita da un frammento d’immagine, magari del volto stesso ripreso, o la sua firma, o qualsiasi altra parte che gli appartenga o no; Volto “costretto” a passare attraverso il proprio volto, o la propria firma, o fagocitato dalla griglia grafica di se stesso. Ho fotograficamente sezionato, con forti avvicinamenti e non, un intero corpo e l’ho inserito pezzo per pezzo nella camera fotofinish in modo che l’immagine si analizzasse con frammenti di sé medesima. La sua identità è rivoltata e disquamata attraverso l’esile spessore del frammento interposto. Appunto, queste più identità possibili, modellate da una sola, inerte, volgono a risoluzioni plastiche inaspettate, da movimenti, azioni e travolgimenti progressivi, come percosse da una ”stravolta” memoria inserita. Questi volti di Tokyo, dall’oscurità si incamminano verso i “segni” da me raccolti attraverso la città, verso la mia paradossale protocinecamera, mio lapis oscuro.
Paolo Gioli