L’opera in segni di Hans Hartung si mantiene presso l’indicazione di un oltre la pittura, è un orizzonte di orizzonti pronto a dilagare oltre le Colonne d’Ercole dell’abbandono alla deriva della forma.
Un vacillare delle tracce in un equilibrio funambolico ed esistenziale costruito sui resti di un day after della figurazione. Una eruzione di erudizione per la cifra simbolica del segno che si definisce a partire da una grande latenza, una lunga ebollizione sotterranea prima di permettere al magma di colare oltre il cratere, sbriciolando segni che si aprono come lava incandescente, lasciando in eredità un territorio fertile del sapere dei segni proveniente dal centro della terra. Una emorragia di sangue tellurico, ebollizione vulcanica del colore, coagulazione di macchie di plasma nero pece. Un magma appena raffreddato di tracce scaturite dal passato profondo del globo.
Quella di Hartung è una Sacra Deposizione della pittura nel cenotafio del segno, oltre il regno della vita della forma. Una traccia da interpretare nel movimento di trascrizione infinita di vibrazioni: rughe inattese affiorate sulla pelle corrugata della pittura successiva alle avanguardie storiche. Andamenti di grovigli e crescita acuminata: una germinazione germanico-espressionista di rovi, una vegetazione pittorica non floreale ma di spine. Una corona spinata che incide un rimo dolorante e quasi masochistico di espiazione: il peccato forse originale della patria tedesca. Una trasfigurazione dei segni, una traspirazione del gesto avvolto sulla tela di un sudario: morte della figurazione nella resurrezione del segno. Così la patria di ogni espressionismo, la Germania, si insinua anche nelle creazioni del più apolide espressionista del segno. La Bildung di Hartung è tutta nel segno del gesto, nel segno del segno: la croce del segno. Una iniziazione al mistero della macchia. Una machine a tacher della pittura. Erranza della ricerca oltre la censura accademica della macchia considerata come errore. Macchiare e tacere, nel silenzio inglobante all’interno del grumo di colore sparso. Un Deus ex Machina della macchia, nell’imprevista apparizione degli Dei del Caso che lasciano sgocciolare le loro intenzioni, le loro attenzioni per il corso umano troppo umano, della pittura. Calligrafia involontaria che non si traduce in norma ortografica. Un linguaggio di segni privato, ma non deprivato del senso riconquistato in un luogo pittorico dove riappare inatteso. Tratti nervosi e riconoscibili, come una firma veloce e sicura che denota e certifica autenticità. Ma anche volontà di cancellazione del Sé nella macchia impenetrabile ineffabile e anonima. Segni retroattivi, retrattili. Un darsi alla macchia dell’Io per far scomparire ogni narcisismo della pittura. Lo spazio incomprimibile della macchia sul foglio immacolato che attende. Hartung è un Cavaliere senza macchia che vuole difendere l’Impero dei Segni seguendo il codice d’onore e l’intento sacrificale del Beau Geste della pittura. Quasi una ritrattazione del tratto nei confini porosi della chiazza oscura del colore. Una macchia assorbita e assorbente che esclude qualsiasi affiorare consolatorio della forma. Un ticchettio di segni che scandisce il ritmo inesorabile del tempo segmentato in tratti. La tela di Hartung è uno spartito di accelerazioni e improvvisi rallentamenti: una rapsodia di segni. Una partitura per piano meccanico, dove l’automatismo del nastro fa scorrere una melodia che accelera o decelera cambiando il tono e l’atmosfera della sonata: dove il suono meccanico da allegro si trasforma in spettrale, come la pianola di una ghost town disabitata in un saloon senza pianista disperso nel far west.
Un transito tra simboli intransitivi. Scalfitture affilate che imprimono linee di erranza e di allontanamento definitivo da qualsiasi figurazione. Il cancellarsi per sfregamento, l’esaurimento, lo sfaldamento dei segni. Segni da rintracciare e da ri-tracciare in una compulsione dell’istante del gesto. Quel che resta da dipingere è il tutto: una Cartografia del Cosmo, tra caos e ordine di leggi fisiche, nella melodia gravitazionale della condensazione di galassie di ammassi stellari, di sistemi solari in fuga. Una Pictura More Semiotico Demonstrata.
Una familiarità di Hartung con la notte assoluta del cosmo tempestata di segni. Atmosfere cromatiche immerse nella notte cosmica che lascia apparire una variazione di intensità di luce riflessa dagli astri secondo una scala di magnitudo astronomica. Lampi che durano anni luce, istanti di luce più lunghi di una vita umana. Le apparizioni di segni sulla tela si offrono alla libera interpretazione, si presentano con l’ambigua inaccessibilità di veri e propri cifrari ermetici, un codice dal significato criptato, polivalente, esoterico e iniziatico, come una premonizione, come la sentenza di un oracolo, che annuncia differenti futuri possibili, strade del possibile che si biforcano.
Un magnetismo mosso da polarità misteriose che genera attrazioni inconsuete tra segni metallici. Tracce ambivalenti, che non si raccolgono in nessuna figura: nemmeno un accenno a cristallizzazioni morfologiche: si rimane sulla soglia di mondi ancora fluidi e reversibili. Nell’interstizio del segno si dipana un tessuto di anticipazioni. Alfabeti fatti di lettere irrelate tra loro, sospese in linguaggio a-semantico, che non riferisce il mondo, ma tratteggia la densità variabile di nebulose perse nel cosmo. Un luogo imploso scritto nel codice genetico dell’universo, prima della singolarità dell’origine, prima di qualsiasi legge fisica a venire. Un punto quantistico di indeterminazione assoluta, ma anche di tempistica precisione e leibniziana armonia prestabilita. Un incontro non casuale tra il colore e il segno in un arazzo rarefatto di tessiture di ritmi. Una sincronizzazione degli antipodi della galassia, un catalogo di analogie cosmiche mostrate nel ritmo solo apparentemente casuale dei segni. Una pittura arricchita di polveri interstellari alla deriva. Esplosioni di supernove di luminescenza, accompagnate da buchi neri implosi in pozzi così profondi da impedire allo sguardo di fuoriuscire. Una segnaletica pittorica che porta nel centro della galassia, per non trovarlo: una foresta di segni dipinta in valore assoluto, nell’impossibilità di assegnare una cifra positiva o negativa alle coordinate di una mappa disorientata di un cielo senza periferia né centro, senza alto né basso. Profondità e rilievo diventano indiscernibili per l’estrema distanza del soggetto rappresentato. Una trascrizione diretta del gesto sulla tela, quella di Hartung, come mai prima di allora le avanguardie storiche, troppo impegnate nella qualificazione poetica delle intenzioni, abbiano potuto realmente praticare. Una pittura in anticipo sulle intenzioni. Il gesto è volontà allo stato puro, è volizione che precede la conoscenza. Il gesto è così idiomatico, personale e personificato nell’Io che allo stesso tempo si oltrepassa nel percepibile, nel segno lanciato in orbita, alla ricerca di un contatto con l’altro. Nessuna concessione verso qualsiasi formulazione riduzionista verso il canone razionalista e geometrico. Quello di Hartung è un tiro a segno che ha come bersaglio l’ortodossia geometrica del costruttivismo.
Le tele di Hartung sono oceani di ignoto dove si frangono irradiazioni di segni. Irrequietezza costitutiva del tratto che è mobile e vibrante come una stella pulsante prima del suo processo degenerativo. Un movimento di forze, una configurazione di vettori in continua trasformazione. Uno scheletro strutturale in continuo divenire rimpolpato da campiture di colore gassoso. Spinte centripete e centrifughe per aggregazioni di instabilità sensibili che rendono possibile una armonia di differenze di un universo in espansione catturato in radiazioni oltre lo spettro della luce visibile. Pluralità di mondi che emettono segni differenti. Il propellente del segno pronto a incendiarsi. Intensità di un segno ad alto potenziale, pronto a reagire con improvvise scariche elettriche di segni sulla tela. Linee che erompono dalla quiete della tela per registrare un universo di esplosioni lontane anni luce. Un meteorite in rotta di collisione contro il cristallo dell’immagine che impatta creando sul vetro irradiazioni nervose e linee di fuga sulla superficie. Aggregazioni di tratti che interferiscono tra loro creando nuclei di vibrazioni secondo leggi di attrazione e repulsione: legge di gravità universale tra i segni. Fibre di segni che si strutturano in combinazioni chimiche instabili, un continuo migrare di cariche da un atomo all’altro dei segni. Un flettersi delle linee secondo una consonanza con le vibrazioni cosmiche, sintonizzata su lunghezze d’onda che attraversano gli ammassi di galassie. Un avvistamento del futuro consentito da un sorvolo nel cosmo. Una visione fuori dal piano prospettico terrestre. Una silhouette del segno in cui il pittogramma perde qualsiasi profondità rivelando l’essenza bidimensionale del piano della pittura. Aggregazione di fantasmi della forma, una seduta spiritica dell’immagine che si condensa in ectoplasmi che parlano in un linguaggio in negativo fatto di vuoti che sono pieni e pieni che sono vuoti. Il sistema dei segni è costituito da differenze, non da termini pieni. Il trascriversi sulla tela di figure quasi automatiche, vibrazioni, intermittenze del cuore: sistole e diastole del pensiero che attraversa la volontà prima di tradursi in cenno muscolare. Un cardiogramma del sogno che diventa segno. Il dilemma della pittura di Hartung non è riducibile alla domanda “sogno o son desto?” ma è un segno ad occhi aperti.
E quasi un Tai-Chi del segno, un volgersi all’aria mimando una lotta immaginaria con la tela, una ginnastica interiore del gesto, una religione del vuoto. Gesti pittorici che sfiorano il silenzio. Mimare non un gesto, ma un silenzio. Il silenzio tangibile del gesto. La pulsione e la pulsazione del segno, l’usura e la dissipazione della traccia. Un vento di segni che trascina il colore in nebulose che velano una polvere di colore. Un grattare scarno del segno su consistenze minerali di alfabeti che precedono la parola o la figura. Tracce ataviche del segno che scalfiscono senza tregua la tabula rasa del mondo. Le grotte di Altamira come rifugio dalla notte profonda, come caverna anti-platonica dove la verità è trascritta sulle ombre sulle pareti e non chiede di cercare all’aperto.
Quella di Hartung è una generosa disseminazione delle tracce. Il desiderio di una pittura non tanto en plein air, ma en plein nuit, nella solitudine raccolta e protesa nell’ascolto dell’universo nella notte rarefatta sulle alture solitarie di un osservatorio astronomico. I resti di esplosioni stellari frammentati in onde che si frangono sulle parabole accoglienti di radiotelescopi.
Un segno inafferrabile da qualsiasi grammatica. Un segno di interpunzione, una virgola, una pausa nel respiro sintattico del dire, un rimando a profondità insondabili del significare. Un sentore, un indizio quasi olfattivo del segno. Sondare le profondità abissali dove segni inconsueti e sconosciuti nuotano come pesci eccentrici che abitano le fosse oceaniche.
Una ossessione per il segno calcificato nello scheletro della raffigurazione: un segno tracciato con le ossa del significante.
Una trascrizione in un alfabeto Morse di segni fatto di una sequenza acustica di punti e linee, un alfabeto Braille di segni fatto di increspature e di qualità tattili del segno.
Lo sfregare dell’attrito metallico sulla tela. Un lascito di polvere di segni che si deposita come il ghiaccio secco di una cometa.
Un di-segno, leggibile come un geroglifico intraducibile, una scrittura orientale con una direzione inversa alla nostra. La deriva dei continenti del segno, una Torre di Babele di segni intraducibili, sempre stranieri e stranianti.
Venature di colore chimico che trasmette impulsi elettrici sulle nervature di fogli. Una fotosintesi vegetale del colore che assorbe luce dal centro non collocabile del quadro galassia. Una onda anomala non nell’Oceano, ma nel vuoto del Cosmo, come eco del big bang e della deflagrazione originaria che si staglia sulla tela. Stringhe filanti di segni affilati. Un ricalco nello spazio cosmico del tempo. Una linea aperta, un tenue filo collegato all’universo. Un sezionamento nel sigillo interno del segno. Hartung ama girovagare senza meta nello spazio cosmico grazie al vettore vibrante di radiazioni di segni. Onde-segno in propagazione nel cosmo. L’impronta di una pausa emersa dal sonno della figura.
Una linea spezzata, dove ogni cambiamento di direzione segna al contempo la presenza di uno scarto gravitazionale una traiettoria a zigzag, fuori dalla linearità della velocità della luce: il modo ideale per misurare l’universo è una linea spezzata di segni, che seziona con lampi la dimensione lineare del tempo. Uno stato troppo caldo della materia, un cosmo di variazione universale, di ondulazione, uno sciame dei segni.
Traiettorie di segni in orbite che fuoriescono dal campo della tela. Improvvisi ritorni secondo cicli di tempo aritmico. L’indizio dell’inizio. Le peripezie, il periplo del segni. Entropia e sinopia del segno. Impronte sul terreno lunare, sul mare non della tranquillità, ma dell’inquietudine. Il travaglio della forma che rifiuta ogni assegnazione. Una scrittura infinita, una esibizione di segni inafferrabili. Una disponibilità infinita ad incidere, sigillare il senso in un alone di enigma. Promemoria dell’oblio non per ricordare, ma per sapere di dimenticare. Come Newton ha vissuto il travaglio tra Scienza e la Bibbia, anche Hartung vive il travaglio di una vocazione tra verità della parola e silenzio delle pittura, che riassume in una mistica dei segni, nella indicazione di un linguaggio interrotto che traduce tutto il potere di occultamento dei segni, che si moltiplicano per depistare. Macchie solari che nascondono cataclismi. Una vocazione che si trasforma in predestinazione rispetto ai segni. Hartung ci invita alla sensibilità verso i segni alla mobilitazione per decifrare l’oscurità delle tracce. Il senso è implicato definitivamente nel segno. Una radura aperta di indicazioni cruciali, dove la traccia si staglia nel silenzio, dove anche un unico segno può essere fatale. Una brughiera tempestosa di segni in movimento. L’opera d’arte emette segni da intercettare ed interpretare. Non più forme riconoscibili ma segni incontrati, che costringono a esercitare il pensiero tra gli scarti, tra le differenze quasi impercettibili. Interrogare il simbolo al di là del suo voler dire. Si tratta di camminare a ritroso sulle impronte già impresse, nel tracciato profondo di orme non umane. Segni rinvianti e devianti, segni in bilico su un bivio, indicazioni che aprono un percorso sui bordi del senso. Effrazione del contenitore dell’essere e simulacro della presenza che non si presenta. La sorveglianza del segno. Raccogliersi nei propri segni. Il sodalizio con i segni, il solstizio dei segni al loro apogeo. Gli avamposti di segni tracciati in anticipo. Impigliarsi nei propri segni. Lasciare riposare i segni. Congedarsi dai segni. Segni recidivi. L’intrecciarsi di segni. Segni assolti dal dovere di significare. Il malinteso tra i segni. I presentimenti dei segni. I segni assediati. I segni mancanti.
Alcune carte di Hartung evocano le piume di un corvo nero, l’effige stilizzata di un segno-corvo, la visitazione notturna di un volatile maledetto evocato in una celebre lirica di Edgar Allan Poe. Il segno è un visitatore non invitato, una forza sinistra che bussa alla porta, un’ombra dietro la tenda, il presagio oscuro che annuncia con la sua nuda presenza un ritornello sfingico di silenzio carico di ambiguo mistero, una potenza diabolica dell’avvenire in uno specchio nero. L’ombra di un segno, un segno d’ombra.
Vittorio Raschetti