Testo Critico di Flaminio Gualdoni, a proposito di Francine Mury

È questione di spazio, nell’opera di Francine Mury. Lo spazio insieme astrattissimo, alle soglie del blank (“Blank, scriveva Italo Calvino nel 1985 a proposito di Arakawa, è il colore della mente, un colore che non riusciamo mai a vedere”) e d’un pensiero maturato quando il secolo già non poneva più come fondanti protocolli e clausole rappresentative: che è allo stesso tempo spazio fisicissimo, concreto, d’esperienza confidente, su cui lo sguardo pascola così come la mano, impregnandosi d’una tattilità nitida e persistente. Ed è questione di tempo. La temporalità allentata, meticolosa, vigile e cautelata, di un fare che concepisce se stesso come sequenza ritualizzata e densa di avvertimenti, come frazione decisiva di plenitudine esistenziale calata in atti ad alto gradiente di senso. La temporalità allentata e vagamente straniata che il foglio impone allo sguardo, la cadenza fluttuante dei percorsi, il picco dei segni lievi e potenti, la sintassi non ordinaria tramata di pause tonali e accenti distillati, chiede la misura concentrata dell’approccio poetico, la disponibilità a un voyage d’anima più che di sensi. Mury viaggia, che percorra le strade dell’India o che assapori l’appartatezza coltivata dello studio di Meride. Alla ricerca di sostanze essenziali dello spirito, di momenti-pausa entro la fluenza dell’esistere in cui una ragion d’essere dell’immagine vuole fissarsi in un carnet, in un foglio, su una tela grande così come su una tavoletta di meditazione, l’artista traccia mappe in cui il colore è tono affettivo – forse, identificazione che il pensiero fa dell’avvertire l’emozione – e il segno è snodo primo d’una crescenza, erede per le mille vie della formatività kleiana e del biomorfismo di Kandisnkij, coagulantesi nel punto prezioso in cui l’umore simbolico empie di sé l’evocazione naturale.
Altre volte lo scenario di questo suo cercarsi incoercibile è l’atelier Upiglio, Wunderkammer tecnica in cui la pratica dell’arte è di per se stessa liturgia, catena precisata di modi e di gesti il cui radicamento artigianale è vissuto come sapienza, come antidoto alla licenza, come coscienza d’un fare che si vuole autre per rivendicazione non d’arbitrio, ma di intensità. Per Mury è, in ogni caso e in ogni luogo, lasciar affiorare e fissare segni d’un biologico inteso primariamente, per usare le parole di René de Solier, come “biologie de l’acte d’écrire peindre dessiner”, che a un’esperienza ripensata del naturale fa riferimento e cui torna in forme d’ambigua, radiante, vitalità. Le matrici, le sagome, il foglio sono il territorio d’esperienza cui Mury riporta l’altra non disgiunta esperienza, di “immedesimarmi panteisticamente nel tremito e nello scorrere del sangue nella natura, negli alberi, negli animali, nell’aria” – così scriveva un altro degli antenati possibili dell’artista, Franz Marc – ma avendo ben salda la consapevolezza che non di perdita di se stessi e di deidentificazione si tratta, bensì di trascendimento a una sorta di assoluto: perché, ricorda ancora Marc, l’arte è “ponte verso il regno dello spirito”. La pratica del monotipo consente a Mury, inoltre, un ulteriore non accessorio spettro di possibili. Permane intatto, in ciascuno di questi fogli, il valore di unicità, di momento esclusivo e fatale di fissazione del senso, che è lo stesso che si legge nei dipinti e che, da un punto di vista concettuale, rafforza e ribadisce la qualità specifica di ogni singolo atto e l’ineffabilità luminosa del picco creativo che ha generato l’immagine. D’altro canto, il monotipo è ambito ideale in cui convivono, riverberandosi reciprocamente, aspetti di alea e di scrupolo, di arbitrio e di esattezza matematica, in un corso che può conoscere anche implicazioni di consecuzione concatenata di immagini per gioco fervido di varianti, scarti, asseveramenti: ognuna delle quali, ci ha ben insegnato Michel Butor in La successione delle immagini, è anche, senza nulla perdere di se stessa, o derogare, o delegare, “un caso particolare d’insieme”. Caso particolare d’un insieme unico, vasto come l’esperienza e totale come la vita, è d’altronde ogni opera, ogni opera di Mury. Alla quale importa scrutinare con intatto stupore e meraviglia fragrante lo spettacolo che la natura continuamente apparecchia ponendosi dal punto di vista delle sue ragioni intime, dei margini inavvertibili, dei processi più introversi, dei segni più ambiguamente generativi. Non è un contemplare da fuori, ma un penetrare, un partecipare, un essere e sapersi parte il quale ha decantato ogni residuo romantico possibile e si è fatto corrispondenza piena tra sentir vivere e sentirsi vivere, tra segno naturale e segno d’arte: continua presenza, continua alterità. Ognuna di queste immagini insedia dunque una pronuncia minima della totalità: è un tutto fatto di infiniti dettagli, un pensiero che, attraverso la fortuna d’ogni nascita, non intermette la sua eternità.