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ROBERTO FANARI

SINFONIA IN NERO. L’EDITING DEI SENSI  

di Alessandro Romanini

Quello di Roberto Fanari è un processo di editing, di postproduzione in senso cinematografico, perché ha come finalità quella di armonizzare fonti visive preesistenti in una forma complessiva inedita per sollecitare la percezione dello spettatore.

Ricombinare elementi singoli, prelevati da realtà visive complesse, conferendogli un senso percettivo articolato, di cui erano privi allo stato di segmento.

L’artista crea un dispositivo percettivo, attraverso un nitido percorso progettuale di post-produzione nel senso conferitogli da Bouriaud, partendo da una fase di selezione dei materiali, delle fonti visive “significanti”.

Fonti, prelevate dal vasto repertorio offerto dalla storia dell’arte occidentale e non, già esperite, oggetto di sguardo e culturalmente esperite e quindi depositate nell’immaginario collettivo.

Perché la ricerca di Fanari non verte su immagini primigenie, vergini, cosciente della perizia dello sguardo spettatoriale, sollecitato dalla pervasiva pioggia d’immagini a cui è sottoposto quotidianamente dalla civiltà dell’immagine.

Spesso le immagini preferite sono quelle quasi cadute in desuetudine per l’eccessiva stratificazione mnemonica e/o l’appartenenza a fenomeni culturali trascorsi se non classificabili nell’ambito delle arti minori.

Appropriazione da parte dell’universo artistico. percettivo di elementi spesso puramente decorativi.

Elementi visivi depotenziati, depauperati della potenzialità di coinvolgimento spettatoriale, che con una doppia operazione di deplacement, di decontestualizzazione e ricomposizione in un ambito significante nuovo ritrovano una potenzialità percettiva inedita.

Elementi che avevano esaurito la loro funzione di veicolazione di significato, ritrovano nuova valenza percettiva nella combinazione a cui l’artista li sottopone.

Ricombinazione che prevede anche una trasformazione materiale, una traduzione intermediale, che libera definitivamente gli elementi originari da ogni cascame referenziale e identitario.

La traduzione abbinata a un ridimensionamento di scala li sottopone anche a un’interpretazione opzionale di ready made modificati e rettificati, o più correttamente assemblage complessi di elementi prodotti.

Testimoni e simboli della ricerca che l’artista porta avanti coerentemente sulla dialettica fra natura e cultura, tra elemento osservato e prodotto.

La finalità ultima è sempre quella di coinvolgere lo spettatore, affrancandolo da un atteggiamento meramente passivo-contemplativo a favore di coinvolgimento percettivo-attivo.

In questa nuova tappa della sua ricerca, il dispositivo visivo concepito da Fanari, trova un ulteriore elemento di attivazione percettiva.

Un elemento determinante per la sollecitazione della funzione scopica dello spettatore, la scelta di declinare in nero le nuances percettive, organizzando un percorso visuale solo apparentemente paradossale.

Perché è l’eccesso di luce ad annullare la visione, mentre le gradazioni dell’oscurità costringono ad acuire lo sguardo per articolare, completare il percorso percettivo.

Un percorso che lo spettatore è chiamato a comporre soggettivamente, per l’artista dissemina elementi progettualmente dislocati per attivare il riguardante (l’accezione anglosassone “beholder” è quella più corretta in questo caso) nella sua funzione co-autoriale.

Opere che rivendicano anche l’indipendenza dell’arte dal referente reale, assemblaggi che rivendicano l’autonomia espressiva, in un processo virtuoso di auto alimentazione iconica.

Soggetti riconoscibili, ma non contestualizzabili nell’universo sensoriale, ma solo come “luoghi della percezione”, ritorno a un’esperienza primaria.

Una sinfonia a lungo studiata e calibrata, un processo di depurazione visiva, di “zero point” della visione, che costringe lo spettatore a un processo di ricomposizione speculare a quello compiuto dall’artista.

Sollecitando in loop la funzione scopica.