Una misteriosa violenza
di Elena Pontiggia
Si racconta che nell’antico rito greco, durante la trieterica sacra, le Menadi, le sacerdotesse di Dioniso, sbranassero le fiere del bosco. Il rito alludeva alla terribilità, alla necessaria violenza della vita. Può ritornare alla mente il mito greco, di fronte alle opere di Sandro Martini? Apparentemente, no. Eppure non c’è un’opera di Martini che non rappresenti una vicenda di disjecta membra, che non sia un’esperienza di squarci, di tagli, di ferite, di cicatrici, anche se quella vicenda e quei frammenti vengono avvolti in una luce assoluta. Sul campo di battaglia della tela, nell’arena della pittura, le linee combattono contro le linee, i punti aggrediscono le rette, i segni graffiano le superfici, i colori si insinuano nel corpo dell’opera come cunei, come frecce. Il risultato è un tumulto, un bellum omnium contra omnes, una condizione di violenza perpetua e al tempo stesso di mischia, di confusione apparentemente ineliminabile. Siamo di fronte, insomma, a storie di azione e di lacerazione, dove però l’esito finale è un imperioso prevalere della luce, come in un gioiello barbarico.
Le apocalissi di Sandro Martini sono stranamente gioiose, e quello che in esse prevale è un sentimento di inspiegabile felicità. La violenza che testimoniano, anzi che portano su di sé, non si traduce in un cupo pessimissmo, ma al contrario in un’accelerazione vitale (che sarebbe piaciuta a Nietzsche, ma anche ai futuristi). La vita è bella, dunque, come ha detto recentemente un altro toscano, che pure parlava di cose troppo dolorose? Forse sì, o comunque è bella l’arte che, come il cielo di Lombardia, è così bella quando è bella, e infonde nell’urto e nello stridio delle cose un’armonia definitiva, sia pure dissonante. L’opera di Martini, del resto, raggiunge l’osservatore con un’impressione immediata di bellezza, di festosità visiva. E solo in un secondo tempo ci si accorge che, sotto la superficie della luce, racconta di catastrofi, di titanomachie, di distruzioni. Ne racconta, intendiamoci, senza dramma. E, tantomeno, senza dar vita a un teatro dell’angoscia. Il dramma è nelle cose, non nel linguaggio: come in certe favole o in certi fumetti in cui il protagonista cade da altezze vertiginose, è affettato schiacciato spiaccicato distrutto, eppure si rialza subito, pesto e senza un graffio, moribondo e sanissimo. C’è, nelle opere di Martini, anche un sotterraneo senso ludico, che non si oppone a quello tragico, ma lo compenetra. Percorre i suoi lavori qualcosa come un riso etrusco, qualcosa di quegli arcaici atteggiamenti sapienziali che, anche accennando alla morte, non perdevano la loro misteriosa ironia. Oppure sembra di leggere, tra i suoi spazi e i suoi colori, certi avvertimenti semischerzosi e semiaccorati di Lee Masters: ”Figli e figlie degeneri, la vita è troppo forte per voi. Ci vuole vita, per amare la vita”. Ma non solo queste cose raccontano le sue opere. Un’altra parte del loro discorso, anzi delle loro rivelazioni, è una cronaca del disordine e dell'insensatezza, una dissertazione o un vaticinio sull'assurdo. Ornamento, spiega l’etimologia, deriva da una contrazione della parola “ordinamento”. Ornare, anticamente, rimandava a ordinare. In queste opere, invece, l’ornamento, o per meglio dire la bellezza, nasce nonostante e attraverso il caos dei segni. Il percorso delle linee, delle diagonali, dei triangoli, dei rombi, l’andamento dei punti, delle gocce, delle striature non rivela il minimo schema precostituito, non risponde e non corrisponde apparentemente a nessuna sintassi. Le composizioni di Sandro Martini sono irriducibili ai tentativi di ordinamento. Sull’estensione della tela si dispongono frammenti e linee che complottano tra loro in una continua instabilità, e chi volesse individuare un senso ultimo, ma anche una ragione immediata, al loro essere e al loro agire, non li troverebbe. Sembra che non ci sia un progetto dietro il loro (il nostro) accumularsi, dietro il loro (il nostro) manifestarsi. O, forse, il progetto è segreto, ignoto allo stesso artista, incomprensibile ai nostri corti ragionamenti e non calcolabile con i nostri dadi truccati. Se però l’impressione finale che dà ogni opera, ogni quadro, ogni carta, è quella di una creazione musicale, di un singolare splendore luminoso, vuol dire che qualche ordinamento misterioso si insinua nel procedere dei segni. Forse la mano di cui parlava Conrad, “quella mano possente e invisibile che affonda nel formicaio del mondo” sta agendo anche qui. Anche se noi non la vediamo.