Bettina Della Casa
Un salto nel vuoto
Inoltrarsi nell’universo di Vincenzo Cabiati è come compiere un salto nel vuoto, un vuoto però colmo di allusioni e di segreti appena annunciati, suggestioni che si sprigionano da spazi smisurati o sconosciuti. Significa farsi catturare dalla vertigine data dalla distanza che la virtualità dell’immagine pone tre sè e il peso della cosa rappresentata. Abitare questa vertigine in uno spazio senza tempo è la scommessa di ogni opera, di ogni esposizione dell’artista.
La dimensione frequentata da Cabiati, tra il fiabesco e il mitologico, è costruita nell’intersecarsi di orizzonti di senso non conseguenti, da avvicinamenti e allontanamenti dello sguardo. In questo ambito si colloca la copertina del volume che annuncia queste pagine. L’immagine fotografica ritrae una giovane donna vestita di un’armatura contemporanea, anelli che immaginiamo sfiorarsi con un vago clangore, memore di una solenne gestualità medioevale. L’abito è fregiato da fili, allusioni a ciglia (cos’altro protegge i nostri occhi, il nostro sguardo ?) e a fronde (lo sfibrarsi degli alberi protagonisti di tante immagini in questo corpus di opere). Una fotografia, questa di copertina, densa di suggestioni che ci conducono garbatamente al vero nucleo delle immagini in catalogo: ci familiarizza con l’incongruo che si ricompone inaspettatamente, con la dialettica delle opposizioni che mai si sintetizzano se non nella disponibilità del nostro sguardo. “Ciglia”, il titolo del volume e della mostra, evoca quel fremito leggero e appena percepibile che è il nostro batter di palpebre, un movimento al contempo fisico e mentale che presiede, almeno fisiologicamente, all’annunciarsi della stessa visione.
Armin Linke, fotografo assiduamente complice di Cabiati in mostre, progetti e pubblicazioni, introduce queste pagine, con un saggio per immagini. Scatti presi nello studio dell’artista, a svelarci una molteplicità di dispositivi: meteoriti impazzite o geometrie di costellazioni, il farsi dell’opera nella sua piena processualità, quasi a mettere in gioco, smentire o negare quel coefficiente di assoluto che presiede ad ogni immagine dell’artista, che si tratti di disegno, dipinto, scultura, fotografia o installazione. L’opera trae forma da frammenti o dettagli attinti da un universo di immagini private, dalla storia dell’arte, dal cinema, dalle infinite suggestioni della realtà. L’evocazione, il riferimento, come calco e calcografia, come maschera e maquette è ripetizione e riproduzione di temi e soggetti con inclinazioni ora ironiche ora inquietanti. Cabiati ama il frammento, non come testimonianza e rievocazione di una storia o della Storia, bensì come occasione, congegno ad hoc capace di produrre spaesamenti e squilibri, apparizioni e sparizioni. Il tempo della storia si incrocia con quello dell’opera creando uno spazio proprio, sciolto dal divenire ed eletto a nuova icona.
Addentriamoci nel congegno di questo progetto, complesso ed immediato al contempo, come una scenografia teatrale di cui siamo invitati a curiosare dietro le quinte. Una figura solitaria si trova al centro dello spazio: “New Legend”, un’opera in ceramica, grandezza al vero, rappresenta un’amazzone sul suo cavallo, vestita di un leggero abito color azzurro pastello. L’immediato richiamo ad una scultura equestre classica viene negato dalla visione parziale della sagoma (mancano le gambe della donna e dell’animale), e dalle aperture sul verso della ceramica (i vuoti del calco), a negarne la funzione pienamente plastica. L’osservatore è tenuto ad individuare da sé quell’unico punto di vista preposto a restituire la visione dell’oggetto nella sua unità. L’artista non vuole realizzare, infatti, una scultura compiuta, bensì un’immagine tridimensionale in cui la piena icasticità, l’efficacia espressiva, l’incisività puramente visiva, viene offerta e immediatamente smentita dall’esibizione del suo darsi materiale. Come “gonfiare un fotogramma”, afferma l’artista, a rendere l’idea di un’immagine bidimensionale che prende corpo.
Alla presenza, al centro dello spazio, di questo elemento figurativo (la cui origine va rintracciata – per pura completezza di informazione – in una foto della bassista del gruppo musicale “The Smashing Pumpkins”) corrisponde una presenza, uguale e contraria, di opere caratterizzate invece dalla pressoché totale mancanza di evidenza figurativa. La corporeità dell’oggetto posto al centro dello spazio dialoga con le apparizioni sfuggenti che “fanno quadrato” intorno ad esso. Una serie di opere dal titolo “Cielo”, “Alberi e buchi” o “Pizzo paesaggio” e due isolate dalle altre, dette “Annusatori di spigoli”. Quale paesaggio delineano queste immagini dai titoli ambigui, ingannevolmente descrittivi ? Teche trasparenti in plexiglas racchiudono tele bianche, oro o argento: le teche, che ospitano immagini fotografiche stampate in serigrafia, lasciano intravedere sulle tele graffi, tagli, fori rotondi o ovali, micro applicazioni in ceramica. L’opera si definisce su tre livelli: l’immagine serigrafata, l’intervento sulla tela, lo spazio appena intravisto della parete retrostante. Manca apparentemente ogni relazione o attinenza formale tra i diversi livelli dell’immagine. Siamo catturati dal perseverare della differenza, da un gioco di verifiche che nulla accertano, domina la pienezza del vuoto, la presenza di un’assenza che non è mera citazione di un’estetica spazialista (omaggio a Lucio Fontana?) o concettuale, ci sembra invece di registrare l’appropriazione, disincantata e disinvolta, di un patrimonio di immagini che tendono a zero, a una riduzione pressoché assoluta. Il vuoto è disegno, immagine, fregio: viene smentito nel momento stesso in cui viene proposto. In “Cielo”, “Alberi e buchi” o “Pizzo paesaggio” la giustapposizione con le immagini serigrafate sulla teca, still-frames di video o dettagli di fotografie di cieli, fronde, boschi dal sapore lunare, allude a una dimensione cosmologico-naturale, come in un opposizione senza soluzione tra spazio ideale e spazio naturale. Le due opere “Annusatori di spigoli” si pongono invece come spazio intermedio e di congiunzione tra l’evidente figuratività narrativa di “New Legend” e le visioni sfuggenti delle opere a parete appena descritte. Le varie angolature degli spazi architettonici stampati sulla teca in plexiglas alludono allo spazio che circoscrive tutte le opere in mostra, mentre i tagli a zig-zag su una tela fondo oro e i fori a forma di sfera sull’altra bianca, evocano corone regali, stemmi araldici. Un re e una regina? Figure che dominano un regno abitato dall’amazzone e circoscritto dai paesaggi? Pur nella dinamica del frammento, l’artista offre una sotterranea traiettoria dello sguardo, un sentiero da percorrere, appena accennato.
La dissociazione degli elementi in gioco, la contrapposizione di dualismi che non si completano, l’accumulazione e le stratificazioni di senso, la presentazione di congetture gratuite e paradossali rappresentano per Cabiati il vocabolario linguistico essenziale per dar luogo a un paesaggio altro, privo di ogni cornice temporale. Gli scarti di senso che si vengono a costituire definiscono orizzonti incastrati tra mito e favola, narrazione e leggenda: una trama silente che si ricompone davanti ai nostri occhi, secondo il nostro arbitrio. L’artista allude ma non spiega: non indica, suggerisce. La “favola” che l’osservatore è chiamato ad immaginare annuncia il momento di sintesi di ogni possibile dualismo.